Dal 7 giugno al 31 agosto 2025, la FAC – Fábrica de Arte Cubano all’Avana ospita la prima personale a Cuba di Ivan Falardi, dal titolo Eyes in Havana.
L’esposizione, curata da Patricia Silverio Guzmán, con il patrocinio dell’Ambasciata d’Italia a L’Avana, presenta oltre 300 opere dell’artista bergamasco che invitano a ridefinire l’idea stessa di visione, ad “ascoltare con gli occhi”, come affermava il fotografo americano Robert Frank, ovvero a cogliere, prima di osservare, il significato nascosto delle immagini, le vibrazioni silenziose che risuonano al di là del visibile.
Nella sua ricerca sulle risorse e sulle potenzialità dello sguardo, Ivan Falardi – che prima di giungere alla fotografia ha attraversato gli ambiti della televisione e del cinema come produttore e regista – ha inizialmente affrontato l’argomento in uno spettacolo teatrale dal titolo La Grammatica dello Sguardo, quindi con l’installazione EYES. 206 Punti di Vista, allestita nel 2023 nell’Area Archeologica di Genova. La sua indagine si arricchisce di un ulteriore capitolo a Cuba, dove le contraddizioni e le difficoltà, che stanno segnando la storia recente dell’isola, gli hanno suggerito di affiancare al tema della osservazione quello dell’ascolto e della riflessione.
Cifra caratteristica del lavoro di Ivan Falardi è la tecnica del Light painting, un processo sperimentato per la prima volta da Man Ray nel 1935, che gli consente di coniugare luce, forma, colore per restituire prospettive imprevedibili, traducendo in immagini le emozioni umane, evocando temi come la solitudine, la vulnerabilità, la tensione tra ciò che è manifesto e implicito.
Il percorso espositivo, concepito come un grande intervento site-specific, è suddiviso in aree tematiche, ognuna delle quali approfondisce un aspetto della “visione” attraverso tracciati luminosi, riflessi, segni reiterati, interazioni con lo spazio circostante. I lavori di Ivan Falardi, infatti, dialogano con l’architettura industriale della Fábrica de Arte Cubano, dove ogni elemento della struttura, dal pavimento alle pareti, diventa parte integrante di una narrazione sensoriale.
S’inseriscono in questa prospettiva i cicli inediti Space e Time. Il primo è formato da sette opere, frutto di una reiterazione di scatti riguardanti la pavimentazione; Time, invece, è rappresentato da un dittico sinuoso, giocato su tonalità rosse e gialle.
Il visitatore sarà accolto nella prima area della galleria da una installazione di 44 occhi sollevati a pochi centimetri dal pavimento che dialogano con due elementi a parete che alludono alla forma dell’occhio.
Ancora gli occhi sono i protagonisti della seconda area. A quelli posizionati a terra fa da contraltare una creazione che forma un grande occhio deformato, che si riflette in due pannelli in alluminio composito tirato a specchio. Proprio l’utilizzo di superfici riflettenti che moltiplicano lo sguardo in un dialogo continuo tra luce, materia e spazio è un’altra delle caratteristiche più riconoscibili del lavoro di Ivan Falardi.
Accanto a essi, si trova un cubo in plexiglass che racchiude un orecchio di terracotta e fili di ottone, realizzato dallo scultore cieco Luigi Turati, che definisce la capacità umana di percepire attraverso altri canali sensoriali, ribaltando la centralità dell’occhio, invitando il pubblico ad avvicinare il mondo con un approccio più intuitivo.
Questa scultura fa da matrice a una serie di oltre settanta cubi in plexiglas al cui interno si trova la fusione in resina di un orecchio per la metà bianco e, per l’altra metà, nero, simboli tangibili dell’idea che la visione non è mai isolata, ma richiede un interscambio con gli altri sensi.
Completa la mostra un confronto con artisti cubani, selezionati dalla curatrice, per offrire una molteplicità di approcci alla tematica affrontata.
Dopo l’appuntamento alla Fábrica de Arte Cubano, l’installazione verrà posizionata in Plaza Vieja, cuore pulsante de L’Havana Vecchia, patrimonio dell’umanità, quindi al Museo de la Ciudad, in Plaza de Armas, considerata la piazza più antica della capitale cubana.
Note biografiche
Laureato in Filosofia negli anni ‘70, con una tesi sulla filmografia del regista ungherese Miklos Jancso, del quale è stato assistente per un periodo, Ivan Falardi si è dedicato nel corso del tempo alla regia cinematografica e televisiva. Durante questi anni la fotografia è stata uno strumento accessorio, costante nel suo lavoro e nei suoi viaggi.
A un certo punto del suo cammino i 25 fotogrammi al secondo sembrano non bastargli più e il regista avverte l’esigenza di confrontarsi con il singolo frame. La fotografia diventa il suo nuovo modo di esprimersi, il medium capace di sacrificare la realtà in funzione dei suoi lati nascosti, probabili e indecifrabili, ma non per questo meno rivelatori o evocativi.
Matura l’esigenza di prevaricare lo scatto, dilatarne il tempo per poter decodificare e restituire rinnovata dignità a prospettive imprevedibili. Sposa la tecnica del light painting, la più congeniale per scandagliare la ricerca verso l’eidolon, l’oggetto della visione che l’artista vuole sottolineare con il suo lavoro; il buio si rivelerà l’eidos, l’oggetto della conoscenza attraverso il quale il fotografo esplorerà le potenzialità di segni, forme, luci, colori.